L’Alzheimer ruba la memoria di chi ne soffre con la complicità di una proteina che si chiama caspasi 3. E’ lei che interrompe il dialogo fra i neuroni incaricati di gestire i ricordi. A smascherarla è uno studio tutto italiano pubblicato su ‘Nature Neuroscience’, condotto dagli scienziati Telethon guidati da Francesco Cecconi presso l’Irccs Fondazione Santa Lucia e l’università Tor Vergata di Roma. La ricerca, su modello animale, riguarda una rara forma ereditaria di Alzheimer. Ma i risultati ottenuti indicano una via percorribile anche per combattere la ‘versione’ più diffusa della malattia. E soprattutto per diagnosticarla, perché un giorno potrebbe bastare un dosaggio della proteina ‘imputata’ per riconoscere un paziente e trattarlo subito.Il team tricolore ha chiarito i dettagli molecolari alla base della mancata comunicazione fra le cellule nervose, un ‘intoppo’ che nel tempo porta alla perdita di memoria e al deterioramento mentale tipico dell’Alzheimer. Il lavoro, spiega Telethon in una nota, “potrebbe avere importanti ricadute nella diagnosi precoce della malattia, tuttora molto difficile, ma anche nel disegno di possibili terapie”.Ad oggi, ricorda la fondazione, non è ancora ben chiaro quali siano le cause della malattia di Alzheimer che colpisce, solo in Italia, circa mezzo milione di persone oltre i 60 anni di età. Esistono però delle rare forme ereditarie dovute a precisi difetti genetici che vengono trasmessi da una generazione all’altra, e che in genere si manifestano più precocemente rispetto alle forme sporadiche più diffuse. Pur avendo un’origine diversa, i meccanismi molecolari alla base del processo degenerativo del cervello sono comunque gli stessi. Ciò significa che studiare le forme genetiche ereditarie può rivelarsi molto utile anche per una comprensione più generale della malattia.
“Siamo partiti dall’osservazione che, con il progredire della malattia di Alzheimer, i neuroni perdono progressivamente il contatto tra di loro”. Un collegamento “essenziale per la trasmissione dei segnali nervosi”, sottolinea Marcello D’Amelio, primo autore dello studio, attualmente ricercatore dell’università Campus Bio-Medico di Roma. “A livello strutturale – precisa lo scienziato – questo si traduce nella perdita delle cosiddette ‘spine dendritiche’, prolungamenti del corpo della cellula nervosa che permettono il contatto, o sinapsi, con le altre cellule circostanti. Quello che non conoscevamo, però, erano i meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno”.I ricercatori Telethon si sono quindi concentrati su una particolare proteina, la caspasi 3, che risultava particolarmente attiva nella sinapsi al momento della comparsa dei primi deficit di memoria nel modello animale della malattia. “In questo studio – riassume Cecconi – dimostriamo che la caspasi 3 ha un ruolo determinante nella perdita delle spine sinaptiche da parte dei neuroni dell’ippocampo, una regione del cervello fondamentale per la memoria. E lo conferma il fatto che, trattati con un farmaco in grado di inibire l’azione della proteina, i topi affetti dalla malattia mostrano un miglioramento comportamentale molto significativo”. Questo risultato, assicura Telethon, apre prospettive interessanti innanzitutto dal punto di vista della diagnosi che, al momento, avviene quando la malattia è in fase conclamata perché non esistono indicatori precoci che possano fare da ‘spie’ per i medici. “Lo dice anche l’Organizzazione mondiale della sanità”, evidenzia Cecconi: “Per le malattie neurodegenerative è molto importante fare una diagnosi il più presto possibile, meglio ancora prima della comparsa dei sintomi, perché in questo modo si possono mettere in atto diverse strategie che possono ritardarne la progressione: dieta, attività fisica, terapie comportamentali e farmacologiche. Disporre quindi di test che permettano, per esempio attraverso il dosaggio di una proteina in campioni prelevati dai pazienti, di diagnosticare precocemente e con una certa specificità malattie come l’Alzheimer potrebbe cambiare la storia di questa patologia”.
Ma non è tutto: lo studio potrebbe anche suggerire nuovi bersagli terapeutici, per replicare nell’uomo quanto osservato nel modello animale. “In questo senso la strada è ancora lunga – puntualizza Virve Cavallucci, coautrice della ricerca – ma quello che abbiamo scoperto studiando questa rara forma ereditaria della malattia potrebbe ragionevolmente applicarsi anche a quelle più diffuse”.
Da Adnkronos salute