Molte persone rimangono sorprese quando capiscono ciò che stanno bevendo. La quantità di liquido in un bicchiere, o la capacità di una bottiglia non corrispondono necessariamente a quanto alcol c’è in realtà nel proprio drink. Diversi tipi di birra, vino o liquori hanno quantità diverse di alcol al loro interno. Queste bevande non sono fatte solo di alcol, perchè esso è sempre diluito in acqua e altre componenti. Ad esempio, molte birre chiare, che definiamo spesso leggere, contengono alcol quasi quanto le birre scure – circa l’85%. Ecco un altro modo di vedere la questione:

Birre normali: gradazione alcolica 5%
Alcune birre chiare: gradazione alcolica 4,2%

Questo è solo un esempio tra i tanti. Ecco perché è importante sapere quanto alcol contiene quello che state bevendo. Negli Stati Uniti, un drink “standard” contiene circa 14 grammi di alcol puro, in Europa e in Italia la stessa quantità di alcol è espressa dall’Unità alcolica.

Una Unità alcolica o uno Standard drink si trova in:

33 cl di birra normale, una lattina, che di solito ha circa il 5% di alcol
14 cl di vino, la quantità di un bicchiere, che in genere ha circa il 12% di alcol
6 cl di bevande alcoliche distillate, il contenuto di un bicchiere da liquore, che è fatto per circa il 40% di alcol

Come fai a sapere quanto alcool c’è nel tuo bicchiere?

Anche se sono disponibili in diverse dimensioni, le bevande che seguono sono alcuni esempi di un drink standard o di una unità alcolica:

standard-drink

Immagine tratta dal sito del NIAAA
Anche se le unità alcoliche sono utili per seguire le linee guida per la salute, possono non riflettere le abituali quantità di alcol. Per esempio, un cocktail ottenuto dalla mescola di diversi superalcolici può contenere da 1 a 3 o più unità alcoliche, a seconda del tipo di alcolici usati, della ricetta e del ghiaccio (acqua) all’interno del bicchiere.

alcol fobiaGli interventi psicologici mirati per gli adolescenti a rischio di problemi emotivi e comportamentali riducono in modo significativo il loro comportamento legato all’uso di alcolici, e quello dei loro compagni di scuola. I risultati sono quelli di un ampio studio randomizzato e controllato pubblicato nel numero di marzo del JAMA, sezione Psichiatria . Gli autori sostengono che l’intervento potrebbe essere organizzato nelle scuole di tutto il Regno Unito per aiutare a prevenire l’abuso di alcol tra gli adolescenti.

Lo studio ha coinvolto 21 scuole di Londra che sono state scelte casualmente per ricevere l’intervento in classe. Un totale di 2.548 studenti(età media 13,8 anni) sono stati classificati come ad alto o basso rischio di sviluppare dipendenza da alcol futuro. Quelli classificati come ad alto rischio rientravano in uno dei quattro profili di personalità a rischio: ansia, disperazione, impulsività e ricerca di sensazioni. Tutti gli studenti sono stati monitorati per il loro comportamento riguardante l’assunzione di alcol per più di due anni. 709 studenti sono stati reputati ad alto rischio, e gli adolescenti sono stati invitati a partecipare a due seminari per apprendere strategie cognitivo-comportamentali per affrontare i loro problemi di personalità.

Attraverso i laboratori, i ragazzi imparano a gestire meglio le loro caratteristiche di personalità e le tendenze individuali, riuscendo a prendere le decisioni giuste per se stessi. A seconda dei loro profili di personalità, potrebbero imparare strategie cognitivo-comportamentali per gestire meglio gli alti livelli di ansia, la loro tendenza ad avere pensieri pessimistici rispetto determinate situazioni o per controllare la loro tendenza a reagire impulsivamente o in modo aggressivo. Lo studio ha dimostrato che questo approccio alla salute mentale, alla prevenzione all’abuso di alcol ha molto più successo nel ridurre i comportamenti a rischio di dipendenza che dare agli adolescenti informazioni generali sui pericoli dell’alcol.

Dopo due anni, gli studenti ad alto rischio delle scuole interessate, sono stati valutati. I ricercatori hanno rilevato un 29% di riduzione totale di assunzione di alcolici, una riduzione del 43% nelle bevute compulsive e una riduzione del 29% del rischio di sviluppare problemi relativi all’alcol rispetto agli studenti ad alto rischio delle scuole di controllo, cioè dove non si erano tenuti i seminari.

Non solo l’intervento ha avuto un effetto significativo sugli adolescenti più a rischio di sviluppare comportamenti problematici riguardanti l’alcol, si è notato anche un significativo effetto positivo su coloro che non hanno ricevuto l’intervento, ma che hanno frequentato le scuole in cui si sono tenuti gli interventi cognitivo-comportamentali. Questo ‘effetto gregge’ è molto importante dal punto di vista della salute pubblica in quanto suggerisce che i benefici degli interventi sulla salute mentale e sul comportamento alimentare si estendono anche alla popolazione generale, probabilmente riducendo il numero di occasioni di bere alle quali sono esposti i giovani nella prima adolescenza.

Questo intervento potrebbe essere ampiamente somministrato alle scuole italiane. Sarebbe un successo dal punto di vista della salute pubblica, apprezzato dagli studenti e dal personale. Sarebbe anche poco costoso perché la formazione del personale scolastico, piuttosto che il reclutamento di psicologi professionisti, costa molto meno. Circa 6 su 10 persone di età compresa tra 11-15 assumono alcolici in Inghilterra, e nel Regno Unito circa 5.000 adolescenti sono ricoverati in ospedale ogni anno per motivi correlati all’alcol. In Italia in numeri sono meno elevati, ma sono in aumento. In tutto il mondo sviluppato, l’alcool determina circa il 9% dei decessi di persone di età compresa tra 15 e i 29 anni, e finora gli interventi nelle scuole si sono dimostrati di difficile attuazione e hanno mostrato un successo limitato. Questo studio londinese che aiuta i giovani a ridurre le probabilità di sviluppare una dipendenza da alcool e/o da droghe è un entusiasmante sviluppo per le strategie preventive, che sono ancora riconosciute universalmente come inadeguate e non supportate assolutamente dai mezzi d’informazione.

Trattiamo un gran numero di persone che hanno iniziato ad assumere sostanze nei loro anni di scuola e accogliamo con favore qualsiasi ricerca basata su prove che possano contribuire a invertire questa tendenza.

insonniaIl sonno è spesso interrotto nelle persone con un probabile esordio precoce della malattia di Alzheimer, prima ancora della perdita di memoria o di altri problemi cognitivi caratteristici della malattia conclamata. Lo evidenzia uno studio pubblicato a Marzo nella sezione Neurologia del JAMA.

I primi dati disponibili indicano provvisoriamente il collegamento patologico potrebbe funzionare in entrambe le direzioni – ovvero le lesioni tipiche dell’Alzheimer potrebbero disturbare il sonno, e la mancanza di sonno favorire le lesioni peculiari dell’Alzheimer.

“Questo collegamento può fornirci un segno facilmente rilevabile di patologia di Alzheimer”, ha detto l’autore dello studio David M. Holtzman. “Come si iniziano a trattare le persone che presentano i marcatori precoci di Alzheimer, i cambiamenti nel sonno in risposta ai trattamenti possono costituire un indicatore del fatto che le nuove terapie siano efficaci”.

I problemi del sonno sono comuni nelle persone che hanno un Alzheimer sintomatico, ma i ricercatori solo di recente hanno iniziato a sospettare che i problemi del sonno possono essere un indicatore precoce di malattia. Questo nuovo studio è tra i primi a collegare stadi precoci della malattia di Alzheimer e disturbi del sonno negli esseri umani.

Per lo studio, i ricercatori hanno reclutato 145 volontari tra i 45 e 75 anni presso l’Università di Washington. Tutti i partecipanti erano cognitivamente normali quando si sono arruolati.

Come nella routine di altre ricerche presso il centro, gli scienziati avevano già analizzato campioni di fluidi spinali dei volontari per i marcatori della malattia di Alzheimer. I campioni hanno mostrato che 32 partecipanti avevano un morbo di Alzheimer preclinico, nel senso che potevano avere placche amiloidi presenti nel cervello, ma non mostravano ancora deterioramento cognitivo.

I partecipanti hanno tenuto diari del sonno giornalieri per 2 settimane, annotando l’ora in cui andavano a letto e in cui si alzavano e altre informazioni legate al sonno. I ricercatori hanno monitorato i livelli di attività muscolare dei partecipanti utilizzando sensori indossati sul polso che rilevavano i movimenti.

“La maggior parte delle persone non si muovono quando sono addormentate e abbiamo sviluppato un modo per utilizzare i dati che abbiamo raccolto come marker per capire se una persona fosse addormentata o sveglia”, ha detto Yo-El Ju, della Washington University. “Questo ci permette di valutare l’efficienza del sonno, che è una misura di quanto tempo la persona ha trascorso a letto addormentata.”

I partecipanti con malattia di Alzheimer preclinica avevano una efficienza del sonno più povera (80,4%) rispetto alle persone senza marcatori del morbo di Alzheimer (83,7%). In media, quelli con malattia preclinica stavano a letto più a lungo degli altri partecipanti, ma hanno passato meno tempo dormendo. “Quando abbiamo analizzato in particolare i casi peggiori- quelli con una efficienza del sonno inferiore al 75% – questi avevano più di 5 volte in più la probabilità di avere la malattia di Alzheimer allo stadio preclinico” ha constatato il Dott. Ju.

I ricercatori stanno ora seguendo partecipanti più giovani che hanno disturbi del sonno.

 

Le persone con disabilità sono maggiormente esposte al rischio di essere vittime di violenza e di sviluppare malattie mentali. Lo afferma una nuova ricerca pubblicata sulla rivista ad accesso libero PLoS ONE da ricercatori dell’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra della University College London.

Un recente Rapporto mondiale sulla disabilità reputa la violenza come una delle principali cause di morbidità tra le persone disabili.

Gli autori hanno analizzato i dati del British Crime Survey 2009-2010 per stimare le probabilità che una persona con disabilità fisiche o mentali, vivendo violenze, domestiche e non, fisiche, sessuali violenza domestica e non domestica, possa sviluppare un disturbo psichico. L’indagine, purtroppo, non ha incluso le persone con disabilità che vivono in istituti.

Il Dott. Paul Moran, co-autore dello studio, ha detto: “Il nostro studio mette in evidenza che, contrariamente all’opinione comune, le persone con problemi di salute mentale sono molto più frequentemente vittime di violenza. Inoltre, l’impatto psicologico della vittimizzazione violenta è probabile che sia più grave per le persone con disabilità pre-esistente. Non sorprende: questo è associato a una quantità enorme di sofferenza e un peso economico rilevante”. Il dottor Moran aggiunge: “Abbiamo bisogno di sviluppare una migliore comprensione su come prevenire la vittimizzazione degli adulti vulnerabili. I medici di Medicina Generale e il personale ospedaliero devono essere attenti a questi risultati e dovrebbero indagare le esperienze di violenza subita tra i loro pazienti più vulnerabili.”.

Nel complesso, gli autori hanno trovato che, rispetto a quelli senza disabilità, le probabilità di essere vittima di violenza nel corso dell’anno passato sono state tre volte superiori per le persone con malattia mentale e disabilità associata, e due volte superiori per le persone con disabilità fisica. Le quote sono simili per la violenza fisica e sessuale e per la violenza domestica e non domestica. La loro analisi ha anche rivelato che le vittime con disabilità avevano il doppio delle probabilità di avere difficoltà emozionali seguenti la violenza rispetto alle vittime non-disabili.

Gli autori affermano che nel complesso, hanno stimato nel loro studio che la prevalenza e il rischio di violenza è coerente con i rapporti di altri paesi come gli Stati Uniti e Taiwan. Secondo gli autori, la loro ricerca evidenzia la necessità per i medici di essere a conoscenza dei rischi maggiori di violenza domestica e non domestica tra i pazienti con tutti i tipi di disabilità, e l’aumento del rischio di difficoltà emotive tra le vittime disabili.

Lo studio conclude: “La ricerca futura dovrebbe valutare l’efficacia dei programmi di prevenzione della violenza nelle persone con disabilità e favorire la divulgazione di questa triste realtà.”

 

dna Uno dei più grandi studi sul genoma umano ha rivelato che cinque principali disturbi mentali condividono alcuni degli stessi fattori di rischio genetici. I ricercatori del National Institute of Mental Health americano hanno scoperto che le persone con disturbi tradizionalmente pensati per essere entità distinte – autismo, ADHD, disturbo bipolare, depressione maggiore e schizofrenia – avevano una maggiore probabilità di avere variazioni genetiche presso gli stessi quattro siti cromosomici. Tra questi, ci sono forme mutate di due geni che regolano il flusso di calcio nelle cellule.

“Questi risultati ci aiuteranno a muoverci verso una classificazione diagnostica che comprenderà la causa della malattia”, ha detto Jordan Smoller, Medico e ricercatore, del Massachusetts General Hospital di Boston, un coordinatore dello studio. “Anche se statisticamente significativa, ognuna di queste associazioni genetiche singolarmente possono rappresentare solo una piccola quantità di rischio per la malattia mentale, che li rende insufficienti per una utilità predittiva e diagnostica se prese isolatamente.”

Prima dello studio, i ricercatori avevano portato prove di comuni fattori di rischio genetici per coppie di disturbi, come la schizophenia e il disturbo bipolare, l’autismo e la schizofrenia, la depressione e il disturbo bipolare. Queste evidenze di sovrapposizione a livello genetico hanno offuscato i confini delle tradizionali categorie diagnostiche e dato luogo a criteri di “dominio di ricerca”, o rdoc , un’iniziativa del NIMH per sviluppare nuove modalità di classificazione psicopatologia per la ricerca di basi neuroscientifiche e genetiche dei comportamenti osservati.

Per saperne di più, i ricercatori del consorzio hanno analizzato i cinque principali disturbi come se fossero la stessa malattia. Sono stati sottoposti a screening per la prova della malattia associata alla variabilità genetica i genomi di 33.332 pazienti affetti da tutti e cinque i disturbi e 27.888 controlli.

Per la prima volta, variazioni specifiche significativamente associate con tutti e cinque i disturbi sono stati identificati in siti cromosomici diversi. Queste variazioni includono due geni che codificano per il meccanismo cellulare che regola il flusso di calcio nei neuroni. La variazione in uno di questi, chiamato CACNA1C , che era stato precedentemente implicato nella suscettibilità al disturbo bipolare, schizofrenia e depressione maggiore, è noto per avere un impatto sui circuiti cerebrali coinvolti nelle emozioni, il pensiero, l’attenzione e la memoria – funzioni perturbate nelle malattie mentali. La variazione in un altro gene del canale del calcio, chiamato CACNB2, era anch’esso collegato ai disturbi.

Le alterazioni del calcio la regolazione del canale potrebbero rappresentare un meccanismo fondamentale che contribuisce a una vulnerabilità ampia alla psicopatologia, suggeriscono i ricercatori. Hanno anche scoperto la malattia è collegata a variazioni per tutte e cinque le malattie in alcune regioni dei cromosomi 3 e 10. Ognuno di questi siti si estende su diversi geni, e gli specifici fattori causali al loro interno rimangono poco noti. Tuttavia, una regione, chiamata 3p21, che ha prodotto il segnale più forte di associazione con la malattia, coincide con variazioni identificate in studi precedenti sul ??genoma per il disturbo bipolare e la schizofrenia.

 

cannabisL’impiego terapeutico della marijuana continua a essere molto dibattuto in tutto il mondo, il New England journal of medicine ha proposto ad alcuni clinici di ragionare sulla letteratura scientifica che riguarda l’argomentoi. In alcuni Stati americani la coltivazione e il consumo di marijuana a scopo terapeutico sono legali. Il caso che ha dato spunto alla rivista riguarda una paziente – una sessantottenne con tumore del seno e metastasi polmonari e vertebrali a livello toracico e toraco-lombare – che vive in uno Stato in cui la prescrizione non viola la legge. La paziente – in chemioterapia con doxorubicina – riferisce astenia e inappetenza, e significativi dolori toraco-lombari. La terapia antinausea a base di ondansetron e proclorperazina ha avuto effetto molto modesto. Per gestire il dolore, negli ultimi tempi assume 1.000 mg di paracetamolo ogni 8 ore e, a volte di notte aggiunge 5 o 10 mg di ossicodone. E’ lei a chiedere al medico di famiglia di usare la marijuana per alleviare la nausea, il dolore e l’affaticamento, dicendo di disporre di un giardino in cui i familiari potrebbero coltivarla.

Favorevoli quando altre opzioni falliscono

Michael Bostwick, della Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota, esprime la sua opinione favorevole, che si basa su un corpus di letteratura (perlopiù aneddotica) a favore dell’efficacia della marijuana, in particolare nei casi refrattari alle terapie convenzionali. Poiché non sono a disposizione negli Stati Uniti inalatori di vapore e i cannabinoidi orali non garantiscono né una biodisponibilità adeguata né rapidità di azione, l’opzione che rimane è quella di fumarne le foglie essiccate: «Se non ha avuto esperienza a scopo ricreativo, la paziente potrebbe trovare inaccettabili gli effetti psicoattivi (che limitano anche l’uso di oppiacei). Ma se ne ottenesse un beneficio, tuttavia, canalizzerebbe 5000 anni di storia della medicina, compreso il secolo in cui i derivati della cannabis avevano un posto fisso nella valigetta nera dei medici americani» spiega Bostwick. «In conclusione, credo che il medico che prescrive la marijuana dovrebbe farlo solo quando le opzioni convenzionali hanno fallito, in pazienti pienamente informati con cui è in corso una relazione terapeutica». Meno possibilisti si dichiarano invece Gary Reisfield, dell’Università di Gainesville in Florida e Robert DuPont, dell’Institute for behavior and health di Rockville, nel Maryland: «Anche se la marijuana probabilmente comporta pochi rischi nella gestione del dolore, è improbabile che offra molti benefici» spiegano, insistendo sull’assenza di dimostrazioni di efficacia nel dolore nocicettivo o in altri sintomi. «Permettere a una paziente con sintomi non controllati di cancro del seno metastatico di uscire dall’ambulatorio con una raccomandazione di fumare marijuana equivale a soccombere al nichilismo terapeutico» affermano.

Il sondaggio online. Il lettori sono favorevoli

La Rivista Americana, ha allora deciso di proporre un sondaggio online agli abbonati (che sono tutti Medici), raccogliendo nella prima settimana circa 1.000 risposte, per il 73% a favore dell’uso medicinale della marijuana.

Normativa italiana

In Italia, con un decreto approvato il 18 aprile del 2007, due dei principi attivi presenti nella cannabis, il Delta-9-tetraidrocannabinolo ed il Trans-delta- 9-tetraidrocannabinolo (Dronabinol) sono stati iscritti nella tabella II, sezione B, delle sostanze stupefacenti e psicotrope e relative composizioni medicinali, considerato che «costituiscono principi attivi di medicinali utilizzati come adiuvanti nella terapia del dolore, anche al fine di contenere i dosaggi dei farmaci oppiacei, ed inoltre si sono rivelati efficaci nel trattamento di patologie neurodegenerative quali la sclerosi multipla». Tuttavia rimane quasi impossibile sul piano pratico importare il farmaco, e la coltivazione è punita con pene che vanno dai 2 ai 20 anni.