familyCara dott.ssa Grossi, sono una donna che sta partecipando al fallimento del suo matrimonio, mi sto separando da mio marito. Non avrei mai creduto che proprio io, proprio noi, saremmo arrivati a questo, ma è un po’ che il nostro rapporto è logoro, non si può più andare avanti così! Con mio marito abbiamo deciso di separarci, ma avendo due figli mi chiedevo quanto la separazione può provocargli dei traumi? Come posso gestirla al meglio?
Grazie, e in attesa di vedere la sua risposta online, la saluto.

Gentile Signora, intanto la ringrazio per avermi scritto e per aver scelto di condividere il momento di difficoltà che sta vivendo con me e i lettori di Mens Sana. La separazione è un momento molto difficile per la vita familiare, per ogni singolo membro di questa e ancor più per i bambini. Lei mi chiede se la separazione provochi dei traumi ai vostri figli. Dipende ovviamente da voi genitori, da come state gestendo questa situazione che, come ogni momento traumatico nella vita di una famiglia, lascerà inevitabilmente dei segni. Non per questo però, se voi genitori ritenete che la soluzione migliore per la vostra famiglia, sia la vostra separazione, ben venga se questo significhi una migliore qualità di vita della famiglia. È evidente che, per i bambini, vivere in un’atmosfera familiare litigiosa, poco serena e colma di continue tensioni non è per nulla salutare per la loro crescita (ma anche per voi genitori immagino!). Sarebbe opportuno, in un certo senso, limitare i danni. Che cosa significa? Cercare, innanzitutto, di tutelare al meglio i bambini. Significa non sottoporli ai contrasti e alle discussioni dei genitori, non mettere in cattiva luce il coniuge, non condividere con i bambini le problematiche adulte. A loro va spiegato in modo sereno, senza far trasparire disperazione o rabbia, cosa sta succedendo nella coppia, per non alimentare fantasia e falsa illusione. La chiarezza e il rispetto nei confronti dei vostri figli devono essere al primo posto. In queste occasioni spesso accade che i genitori incorrano in un rischio definito sindrome di alienazione genitoriale (o PAS, dall’acronimo di Parental Alienation Syndrome). La PAS, sarebbe prodotta da una presunta “programmazione” dei figli da parte di un genitore patologico (genitore alienante che assume il ruolo di accusatore “sofferente”): una specie di lavaggio del cervello che porterebbe i figli a perdere il contatto con la realtà degli affetti, e ad esibire ostilità e disprezzo ingiustificato e continuo verso l’altro genitore (genitore alienato, accusato e descritto come “squilibrato”). Le tecniche di “programmazione” del genitore alienante, comprenderebbero l’uso di espressioni denigratorie riferite all’altro genitore; false accuse di trascuratezza, violenza o abuso (nei casi peggiori, anche abuso sessuale); la costruzione di una “realtà virtuale familiare” di terrore e angoscia che genererebbe, nei figli, profondi sentimenti di paura, diffidenza e odio verso il genitore definito ”squilibrato”. I figli, quindi, si alleerebbero con il genitore “sofferente”; si mostrerebbero come contagiati da questa sofferenza, ed inizierebbero ad appoggiare la visione di quest’ultimo, esprimendo, in modo apparentemente autonomo, astio, disprezzo e denigrazione contro l’altro genitore. La “programmazione” arriverebbe, a distruggere la relazione fra figli e genitore alienato, perché i bambini arriverebbero a rifiutare qualunque contatto, anche solamente telefonico, con questi. Perché si possa parlare di PAS, però, è necessario che l’astio, il disprezzo, il rifiuto non siano giustificati (o giustificabili) da reali mancanze, trascuratezze o addirittura violenze del genitore alienato. Chiaramente è auspicabile non avvicinarsi a quest’atteggiamento patologico, ma tenere bene a mente che anche se il coniuge non è più la persona che si vuole al proprio fianco, questo rimarrà sempre il padre (o madre) dei propri figli. Si può smettere di essere marito (o moglie) ma non si cessa mai di essere genitore.

Dott.ssa Irene Grossi

glenn-closeMILANO – «Cari lettori, vi racconto un problema che mi sta molto a cuore, da anni, perché è una tara della mia famiglia: la malattia mentale. Mia sorella Jessie, che ha otto anni meno di me, soffre di disturbo bipolare, e a suo figlio Calen, mio nipote, all’età di 15 anni è stato diagnosticato un disturbo schizo-affettivo, una malattia a metà strada fra schizofrenia e sindrome bipolare. Calen è stato in ospedale per quasi due anni e ha avuto la fortuna di ricevere la diagnosi giusta relativamente presto. La sofferenza di mia sorella, invece, non è mai stata compresa correttamente dai medici fino ai suoi 47 anni. Che rabbia. Io, i miei, pensavamo che fosse una ragazzina selvaggia, ma la realtà è che in famiglia eravamo sprovvisti del vocabolario per parlare della malattia mentale. Non sapevamo. O non volevamo sapere. Chissà quante altre famiglie vivono le stesse cose.

HO STUDIATO A FONDO – Mi sono messa a studiare a fondo l’argomento, non soltanto per aiutare mia sorella e suo figlio, ma con la speranza di aiutare a portare della luce su un campo cotanto vasto eppure così poco conosciuto e soprattutto, tristemente, considerato un tabù. Per fare un esempio, l’Organizzazione mondiale della Sanità ha stimato che nel 2020 la depressione sarà la seconda malattia di disabilità al mondo dopo le malattie cardiovascolari. Ecco, l’organizzazione no profit che ho fondato, BringChange2mind (tradotto, Porta il cambiamento alla mente), ha proprio la missione di far capire come quella che viene definita follia debba diventare parte delle nostre riflessioni, perché fa parte della condizione umana. Dobbiamo parlare della malattia mentale, che sia depressione o schizofrenia, o ancor disturbo bipolare, come se stessimo parlando del diabete o del cancro. Nello sforzo di aiutare la ricerca in questo campo, ho donato agli scienziati della compagnia Illumina un campione delle mie cellule perché facessero una mappa del mio Dna. Sono studi difficili, il bipolarismo è una malattia complessa, in cui ciascun gene può avere un effetto minimo, ma devastante insieme con altri.

ORA MIA SORELLA E MIA NIPOTE STANNO MEGLIO – Mia sorella e mio nipote oggi riescono a condurre una vita quasi normale. Il merito va alla psicoterapia e ai farmaci, che sono molto migliorati negli ultimi anni. Loro due sono i miei eroi. Purtroppo tanti pazienti con psicopatologie sono sfortunati. Non bastano le medicine. Serve prima un bravo dottore che sappia leggere ogni segno di disturbo. Mio nipote, nonostante il suo disturbo, vive la sua vita pienamente e realizza la sua creatività. Calen dipinge: la sua passione per l’arte e il suo talento sono il focus che gli consente di non scindersi e rimanere se stesso».

Dal Corriere della Sera

depressione donnaSalve Dottoressa Grossi, sono una mamma, e malgrado l’affetto incondizionato della mia famiglia, da un po’ di tempo mi sento molto giù, ho quotidianamente l’umore a terra; ed è strano perché prima ero una donna attiva, piena di interessi, piuttosto serena e solare. Da un po’ di tempo invece, non mi interessa più nulla, è come se avessi perso il piacere nel fare le cose. Non ho più appetito, infatti ho perso peso, e la notte dormo molto poco; il giorno mi vengono a mancare le forze e per questo me ne sto per la maggior parte del tempo sul divano; davanti lo sguardo dei miei figli il senso di colpa si fa incontenibile. Intorno a me  vedo che tutto va male … sa’ quando si dice..”vedo tutto nero”? bè , io vedo così, mi sento.. nulla. Non sono più in grado di fare niente e mi sento davvero inutile. Devo ammettere che spesso ho anche pensato di farla finita; si, me ne vergogno un po’, ma … non sono riuscita a farlo anche perché la sola idea che i miei figli crescessero senza la loro mamma, non faceva altro che lacerarmi. Ma poi penso … che futuro avrò io??? Riconosco di essere depressa, una parola che risuona come un macigno, ma che in qualche modo mi dà un’identità. E spesso mi chiedo, e quindi, le chiedo, se ne esce??? Grazie.
Lettera firmata

Grazie Signora innanzitutto per aver condiviso con i lettori la sua sofferenza, che forse è quella di molti altri. Le rispondo subito con un’altra domanda, ma lei vuole uscirne? E rispondo alla sua; SI dalla depressione se ne può uscire, se c’è davvero il desiderio di mettersi in discussione e di lottare contro questo mostro dei nostri giorni. Mi chiedo se, accanto a questa tristezza, questo disinteresse nei confronti della vita, questo sentirsi indegni, possa esserci un po’ di amor proprio che le dà la forza di farsi aiutare; in quanto la depressione può essere sconfitta ma con un aiuto esterno, di uno specialista che fa da guida in questo difficile percorso di rinascita, con l’obiettivo di ricolmare quel senso di vuoto che attanaglia la sua vita. Talvolta i farmaci aiutano, ma da soli non sono sufficienti; se invece sono associati ad una buona psicoterapia il risultato finale sarà sicuramente più efficace e duraturo. Dalla lettera che la nostra cara lettrice ci ha inviato, emergono pensieri negativi su di sé, sul mondo e sul futuro. E sono proprio questi pensieri, “falsati, distorti, travisati” che provocano la  profonda sofferenza causa della depressione. E noi, proprio su questo dobbiamo lavorare, per modificare e rendere quei pensieri più sani e un pò più aderenti al mondo reale; a volte la realtà non è proprio così come lo vediamo noi, almeno si può provare a guardarla da altri punti di vista, con altri occhi! Il pensiero ricorrente di coloro che soffrono di depressione, e che ci conferma avere anche la signora, è: “Non uscirò mai da questa depressione”, “non starò mai meglio”  invece non è così … la Depressione è un male curabile, basta solo desiderare di star meglio e ammettere a sé stessi di non essere dei super eroi e che decidere di farsi aiutare non è una sconfitta ma una vera prova di coraggio!

Dr.ssa Irene Grossi

Alla vostra cortese attenzione …

Desidero portare a Sua conoscenza quanto oggi, 22 agosto, ho dovuto subire nel disbrigo di una pratica presso la stanza n.°33 – ASL Roma D di via Pascarella – per una autorizzazione di un “piano terapeutico” prescritto da un medico dell’ospedale Forlanini.

Alla consegna della “prescrizione” (consegnatami dal Forlanini perché la portassi in via Pascarella…), mi è stata richiesta dalla impiegata, anche una fotocopia della stessa “prescrizione”, fotocopia che io non avevo, ne avrei dovuto avere per motivi di facile comprensione, che riguardono l’organizzazione della struttura sanitaria, non certo il cittadino. Ma… niente fotocopia, niente autorizzazione… è stata la risposta!

Erano le ore 11, la temperatura per strada 35/37 gradi, malgrado i miei quasi 80 anni, sono stato così costretto a trovare un servizio in viale Trastevere per riprodurre il documento e tornare nella stanza 33 di via Pascarella. Non è stato un “andata e ritorno” facile, per il fisico ed i 37°, mi creda!

Se ha dei dubbi Le consiglio di sottoporre qualche suo anziano  parente, o, meglio ancora , se stesso – se non è più nella verde età – a ripetere quello che oggi è stato imposto allo scrivente. Ritengo sia stato un sopruso, un abuso di ufficio perchè non trovo traccia di un obbligo del paziente a fornire la “ fotocopia”;  se c’è me lo faccia sapere per cortesia! Perché non c’è un collegamento tra le strutture per evitare di aggravare ancora più la vita del cittadino/paziente, il tutto poi per una fotocopia come nel caso in questione?

In altre strutture è possibile trovare a disposizione una macchina fotocopiatrice,(con uso a pagamento) a disposizione dei cittadini. Mi è stato detto che il problema è a conoscenza del direttore della ASL, con il risultato che tutto si è fermato alla “conoscenza”…

Se, disgraziatamente, oggi per la strada mi fossi sentito male, mi creda, qualcuno ne avrebbe pagato le conseguenze, perché non è ammissibile una tale indifferenza nel risolvere problemi a salvaguardia dell’altrui salute e per i quali si viene assunti e pagati!

Questa mia protesta ha lo scopo (la speranza) di sollecitare interventi tesi ad apportare migliorie nella organizzazione, che evitino ad altri poveracci quello che oggi è capitato a me, per una fotocopia!

Potrei conoscere il Suo pensiero al riguardo? La ringrazio anticipatamente.

Roma 22 agosto 2011

Lettera firmata


Egregio Signore,

Ha ragione, quello che ha subito è un sopruso e uno scarico di responsabilità e lavoro su di lei. Le strutture sanitarie che redigono piani terapeutici sono tenuti a produrre tre copie: una da trattenere in cartella clinica, una da consegnare al paziente che la consegnerà al suo medico di base e una terza che deve essere spedita alla ASL di competenza dalla struttura sanitaria e non portata a mano dal paziente! La prescrizione poi è inutile, perchè già la redazione di un piano terapeutico sottintende che sia avvenuta una prescrizione (altrimenti il piano terapeutico che cosa viene fatto a fare?).
Purtroppo questo paese dalle troppe leggi, applicate con il fai da te, produce anarchia e disservizi che si abbattono sempre tutti sul cittadino-utente. Questi burocrati, che stanno uccidendo la sanità, dovrebbero mettersi in testa che sono addetti a fornire servizi al cittadino e non sono lì solo per percepire stipendi ad avere una sedia e una scrivania, da cui ripararsi anche dal caldo. Questo però dobbiamo farglielo capire noi utenti, non possiamo che essere noi a cambiare questa vergogna, ormai spero che sia chiaro a tutti che non possiamo più appellarci a qualche “onorevole”, maiale ingrassato a spese nostre.
Non consegni la copia del Piano terapeutico alla ASL e non faccia nessuna fotocopia, lo riconsegni all’ospedale e gli regali un francobollo, così non potranno piangere perchè non possono sostenere i costi di spedizione.
La saluto e le prometto che pubblicheremo la sua lettera sul nostro sito www.mens-sana.biz a testimonianza dei disservizi e soprusi che i cittadini devono sopportare e che ci impegneremo affinchè i diritti dei malati siano difesi e rispettati.

Dott. Marco Paolemili

 

Avevo un problema con l’alcol. Diciamo la verità, ero dipendente dall’alcol. Non mi accorgevo che la mia vita andava sempre peggio: la separazione da mia moglie, mia figlia che quasi non mi riconosceva più e il lavoro in ristorante, sempre più faticoso, sempre più liti con i colleghi. Sono stati loro a capire che avevo problemi con l’alcol. Si vede che ad un tratto non ce l’ho fatta più a fingere.

Così ho deciso di curarmi. Un mio amico mi ha suggerito il vostro centro, vi ho riposto tutte le mie speranze, perchè davvero non ce la facevo più. Mi dite che non devo mai abbassare la guardia e avete ragione, ma ora sono più di 400 giorni che non bevo più e ora sono felice, mi sento un altro uomo. Mi sono ripreso le mie libertà, mia figlia mi vuole bene (e ho scoperto che me ne ha sempre voluto, anche quando pensavo che io non le servissi più) e il lavoro ora mi sembra una passeggiata (beh, forse qui sto esagerando!).

Grazie perchè mi avete insegnato a parlare con il cuore. Ho imparato a tirare fuori quello che ho dentro, sia il bene che il male. Non ho più bisogno di stordirmi con l’alcol, di seppellire i miei dolori e di sentirmi ogni giorno più sbronzo e deficiente.

Vi abbraccio forte e vi ringrazio con il cuore.

Giuseppe

autismo“Gentile dottoressa Grossi, sono la mamma di Giorgio, un bambino con autismo. Ho saputo che lei lavora anche con i bambini come mio figlio, come terapista,  per questo mi rivolgo a lei visto che è del mestiere. Giorgio ha quasi 9 anni, non parla e frequenta la prima elementare;  gli è stato diagnosticato il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, (si chiama anche così vero?) all’età di 3 anni dopo una progressiva regressione. Io e mio marito, dalla diagnosi, andiamo in continuazione alla ricerca di nuove scoperte in ambito scientifico, nuove cure per questa patologia che si sta, ahimè, diffondendo sempre più. Ci siamo sempre sentiti soli in questa ricerca, né servizi sanitari, né Stato ci hanno mai supportato né con interventi professionali, nè  agevolando le spese che, come lei ben saprà, sono onerose. Ora che è entrato a scuola speravamo di avere un supporto almeno da questa, ma … l’insegnante di sostegno ha poche ore con lui, inoltre Giorgio è seguito anche da un AEC  (assistente culturale educativo), ma anche questa ha ore non sufficienti per coprire tutta l’intera giornata. Per giunta, ci hanno appena informato che l’anno prossimo, per mancanza di fondi, le ore saranno ancora meno. Come faremo con il nostro bambino? Mi dia qualche indicazione. La ringrazio.” Una madre disperata.

 

Cara mamma di Giorgio, quante storie come la sua sento raccontare ogni giorno dalle famiglie dei bambini che seguo. Purtroppo questo è il problema, una patologia che si sta diffondendo e che ancora non trova cause chiare e cure assolutamente efficaci anche perché si investe troppo poco nella ricerca, rispetto all’estensione del dramma. Cerchiamo di chiarire meglio ai nostri lettori, di cosa stiamo parlando . L’AUTISMO è una complessa sindrome basata su disordini fisiologici e biochimici che hanno un comune punto finale: danni a livello cognitivo e relazionale. E’ considerato un disturbo Pervasivo dello Sviluppo che si manifesta entro il terzo anno di età. Comporta gravi deficit nelle aree della comunicazione (ritardo o assenza dello sviluppo del linguaggio), dell’interazione sociale (vivono nel loro mondo, quindi difficoltà a mantenere l’attenzione e lo sguardo con l’interlocutore), e problemi di comportamento (comportamenti autolesionistici, aggressivi, non socialmente accettabili). Inevitabilmente questi bambini hanno bisogno di interventi e trattamenti speciali. Tali trattamenti però, sono completamente (o quasi) a spese della famiglia, parliamo di cure farmacologiche o omeopatiche costose, visite mediche con specialisti ricercati, terapiste private che dovrebbero lavorare con il bambino quotidianamente; per non parlare poi della dieta DAN che seguono la maggior parte dei bambini con autismo, priva di glutine e caseina. Come abbiamo già detto le cause non sono ancora certe. Parliamo comunque di una predisposizione del bambino a contrarre questa sindrome, da lì vi sono correnti diverse di pensiero. Tra le tante, una attribuisce la causa ai vaccini. Spesso questi bambini hanno difficoltà ad assorbire sostanze pesanti presenti in questi farmaci e questo provoca danni a livello cerebrale. Altri parlano di cause virali, ovvero un virus che ha innescato dei processi di regressione delle abilità acquisite, ecc ecc. Qui andremo troppo a toccare temi bollenti sulle potenti aziende farmaceutiche, e simili, ma non è ora il caso. Nel concreto però, famiglie come quella di Giorgio e bambini come Giorgio, vengono abbandonati ai loro destini. Per esempio, all’interno della classe, la gestione di un bambino con autismo diventa complicato in assenza di una docente esperta che sa come gestirlo nei momenti di crisi che purtroppo caratterizzano spesso i momenti di vita di questi bambini. Talvolta tale sindrome può essere trattata attraverso indicazione di ordine cognitivo-comportamentale che possono essere fornite all’insegnante di sostegno del bambino e alle insegnanti curriculari. Inoltre l’intervento con il bambino implica inevitabilmente un coinvolgimento dell’intera classe che dovrebbe essere preparata ad accogliere e imparare a convivere con le grandi difficoltà del bambino. Al riguardo dovrà essere organizzato un programma specifico di intervento che vedrà coinvolti le insegnanti e i bambini della classe. Ma per far questo sono necessarie risorse e quindi fondi. E’ necessario che la ricerca vada avanti, ma soprattutto che lo Stato diventi più sensibile a queste tematiche fornendo più risorse, maggiori investimenti,  più finanziamenti per queste famiglie e questi bambini in difficoltà.

Per Info: la Dott.ssa Irene Grossi, Psicologa l’età adulta e dell’età evolutiva per Mens Sana

riceve negli studi di Roma e di Castrocielo (FR)

info@irenegrossi.it  www.irenegrossi.it
Cellulare: 3495098145