adolescenteLe madri che hanno subito gravi maltrattamenti nella loro infanzia hanno fino a cinque volte più probabilità di avere un bambino che subirà maltrattamenti fisici. Tuttavia, uno studio condotto finanziato dal Medical Research Council Inglese e  in collaborazione con il Centro per il Controllo delle Malattie (CDC) e la prevenzione americano, ha dimostrato che le madri che hanno subito abusi e maltrattamenti da bambine, hanno meno probabilità di avere dei bambini con gli stessi problemi se sviluppano relazioni sicure, di sostegno, da adulte.

Gli autori hanno condotto uno studio su oltre 1.000 madri nel Regno Unito. Hanno accertato la storia infantile di maltrattamenti delle madri durante interviste private e hanno raccolto le esperienzie di maltrattamenti fisici subiti ripetutamente dai bambini per un periodo di 12 anni.

Tra le madri che hanno riferito di essere state vittima di gravi maltrattamenti durante la loro infanzia, il 56 % ha avuto un figlio che ha anch’esso sperimentato maltrattamento. Tuttavia, il 44 % aveva figli che sono sfuggiti ai maltrattamenti.

I fattori che potrebbero contribuire a rompere il ciclo degli abusi da una generazione a quella successiva possono essere diversi. Le relazioni di sostegno e di fiducia con i partner, alti livelli di calore materno verso i bambini, bassi livelli di violenza tra partner adulti.

Esplorando i comportamenti e i modelli che hanno contribuito a spezzare il ciclo degli abusi, si potrebbero aiutare a sensibilizzare la politica nell’aiutare a rinforzare questi cambiamenti positivi nelle famiglie e ridurre al minimo il rischio di perpetuare modelli negativi di comportamento.

Assistere le madri nella creazione e nello sviluppo di una stabilità affettiva e coltivare relazioni con i figli e con gli altri adulti può aiutare a rompere il circolo vizioso degli abusi da una generazione alla successiva e prevenire ulteriori casi di maltrattamento sui minori.

disturbo-ossessivoUn nuovo rapporto dei ricercatori di Alzheimer Disease International disponibile qui in versione integrale, rivela che il numero di persone affette da demenza in tutto il mondo nel 2013 è stimato a 44 milioni. Raggiungerà i 76 milioni nel 2030 e i 135 milioni entro il 2050.

I nuovi dati confermano un aumento del 17% nelle stime globali riguardo i casi di demenza, rispetto ai dati del Rapporto Mondiale Alzheimer 2009, che  stimava il numero di persone affette da demenza a 35 milioni nel 2010, 66 milioni nel 2030 e 115 milioni entro il 2050.

Per sono stati i paesi ad alto reddito ad aver sopportato il peso dell’epidemia di demenza, ma la malattia è un fenomeno globale. Nei prossimi decenni il peso della malattia si sposterà sui paesi a basso e medio reddito con il 71 % dei malati che vivranno proprio in quei paesi attorno il 2050.

I governi delle nazioni più ricche del mondo si stanno concentrando oggi sulla demenza. I paesi in via di sviluppo, con risorse limitate avranno poco tempo per sviluppare sistemi completi di protezione sociale e assistenza sanitaria. Mentre noi tutti speriamo nei progressi nel trattamento che potrebbero attenuare l’impatto di questa epidemia, dobbiamo lavorare per ridurre il tempo che passa tra la diagnosi e l’inizio del trattamento . Nessuno dovrebbe essere lasciato senza accesso al sostegno e alle cure.

Alla vigilia del vertice del G8 sulla Demenza, che si terrà a Londra, questo dato è un allarme che deve far capire che non sono solo i paesi del G8 , ma tutte le nazioni a doversi impegnare per un incremento della ricerca sulla demenza.

Il rapporto avverte che la maggior parte dei governi sono impreparati per l’epidemia di demenza, con solo 13 paesi che attualmente attuano un piano nazionale. Il rapporto chiede un piano d’azione collaborativo, a livello mondiale per le organizzazioni, i governi, l’industria e il non-profit. Afferma inoltre che la ricerca deve diventare una priorità globale al fine di migliorare la qualità e l’accessibilità delle cure, trovare trattamenti che alterano il corso della malattia e individuare più opzioni per la prevenzione.

emicrania Un nuovo studio ha concluso che l’assunzione del farmaco modafinil (venduto come Provigil in Italia), tipicamente utilizzato per trattare i disturbi del sonno, in combinazione con antidepressivi riduce la gravità della depressione più efficacemente che assumendo antidepressivi non in associazione. Lo studio, una collaborazione tra Università inglesi, è stato pubblicato online sul Journal of Clinical Psychiatry.

Circa un terzo dei pazienti con  depressione ricevono poco o nessun beneficio dal prendere antidepressivi, anche quando usati in combinazione con trattamenti psicologici. Inoltre, anche in coloro che rispondono al trattamento, sintomi residui come affaticamento e disturbi del sonno rappresentano fattori di rischio per la ricaduta. Gli autori dello studio ritengono che queste persone, in particolare, potrebbero trarre i maggiori benefici dall’integrazione con il modafinil.

Il Modafinil ha azioni su un certo numero di sistemi di neurotrasmettitori. Questo potrebbe spiegare perché aggiungendolo agli antidepressivi tradizionali, come gli inibitori del reuptake della serotonina, abbia effetti benefici sui sintomi sperimentati dai pazienti depressi.
La depressione colpisce tutti gli aspetti della vita, portando alla disabilità professionale e sociale a vari livelli. E ‘particolarmente importante che le persone ricevano un trattamento efficace quanto i sintomi residui, ad esempio la stanchezza, la mancanza di concentrazione persistono e hanno un impatto negativo nella vita delle persone.

Una revisione di vari studi che hanno esaminato l’uso di modafinil come un add -on di trattamento per la depressione ha rivelato che modafinil ha ridotto la gravità della depressione così come i tassi di remissione. Modafinil ha anche mostrato effetti benefici sulla stanchezza e sulla sonnolenza, con l’ulteriore vantaggio di effetti collaterali comparabili al placebo, cioè bassi.

La ricerca ha anche rivelato che i benefici sintomatici di modafinil potrebbero anche avere implicazioni per migliorare la difficoltà di funzionamento al lavoro a volte causato dalla depressione. Questo è importante perché la depressione è una delle principali cause di assenteismo (assenza per congedo per malattia) e malfunzionamento (presente al lavoro, ma non rende come prima) lavorativi.

paneamore_sanitaIn dieci anni le risorse umane dedicate all’assistenza e alla cura dei malati psichiatrici, un milione e 200mila Italiani, circa il 2% della popolazione, sono state ridotte dalle Regioni del 50%. Lo rivela un’indagine commissionata dalla Società italiana di Psichiatria.

Il numero delle persone in cura è probabilmente sottostimato perché molti non si avvicinano alle cure a causa dello stigma che pesa sulla malattia mentale e molte altre persone scelgono di curarsi privatamente, anche perchè l’accesso alle cure pubbliche non è immediato e completo. In base ai dati resi noti, raccolti in più del 30% dei dipartimenti di salute mentale di 14 regioni italiane, il tasso di psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali, operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione psichiatrica che lavorano nei centri di salute mentale è passato da 0,8 a 0,4 ogni 1.500 abitanti.

Nel 34% dei casi le persone in cura per problemi psichiatrici hanno tra i 18 e i 44 anni, nel 39% tra i 45 e i 64 anni, nel 27% oltre i 65 anni. forti Un numero così basso di personale, causato dalla mancata assunzione di nuovi elementi a fronte dei pensionamenti, ha forti ripercussioni sul funzionamento delle strutture, già impoverite, e sull’impatto in termine di lavoro, stress, fatica fisica, dispendio energetico degli operatori e quindi sulla qualità dei servizi resi ai cittadini.

In questa condizione le Regioni e lo Stato si stanno impegnando a tagliare ancora ulteriori fondi dedicati alla ricerca e all’assistenza psichiatrica al fine di poter garantire pensioni d’oro (una pensione d’invalidità invece ammonta a circa 300 euro mensili), debito pubblico e stipendi d’oro a chi taglia fondi all’assistenza sanitaria.