van-gogh-self I geni legati alla creatività potrebbero anche essere responsabili dell’aumento del rischio di sviluppo della schizofrenia e del disturbo bipolare.

È stato a lungo ipotizzato che la creatività e la psicosi presentano alcune analogie, con notevoli esempi di artisti come Vincent Van Gogh che soffriva di malattie psichiatriche. Precedenti studi hanno dimostrato che i disturbi psichiatrici, il disturbo bipolare in particolare, tendono ad essere diagnosticati nelle stesse famiglie in cui è comune che alcuni membri svolgano professioni creative. Tuttavia, fino ad ora non era stato possibile individuare se questo fosse solamente dovuto a fattori ambientali condivisi e allo status socio-economico.

Anche se la creatività è difficile da definire a fini scientifici, i ricercatori considerano una persona creativa qualcuno che utilizzi nuovi approcci che richiedono processi cognitivi che sono diversi dalle modalità di pensiero o espressione prevalenti. La schizofrenia e il disturbo bipolare sono disturbi coinvolgono pensieri ed emozioni, il che significa che chi ne è affetto mostra alterazioni dell’elaborazione cognitiva ed emozionale.

I fattori di rischio genetici per la schizofrenia e il disturbo bipolare sono stati esaminati in un campione di 86.292 individui dalla popolazione generale dell’Islanda, in collaborazione con o ricercatori di deCODE Genetics, che ha fornito i dati. Nello studio, pubblicato su Nature Neuroscience, individui creativi sono stati considerati quelli appartenenti alle società artistiche nazionali di attori, danzatori, musicisti, artisti visivi e scrittori.

I ricercatori hanno trovato che i punteggi di rischio genetici sia per la schizofrenia che per il disturbo bipolare erano significativamente più alti nelle persone definite come individui creativi, con punteggi a circa metà strada tra la popolazione generale e quelli con disturbi diagnosticati.

Questi risultati avvalorano l’influenza diretta dei fattori genetici sulla creatività, in contrasto con l’effetto dovuto alla condivisione di un ambiente definito creativo.

Per la maggior parte dei disturbi psichiatrici poco si sa circa i percorsi biologici sottostanti che portano alla malattia. Un’idea che ha guadagnato credibilità è che questi disordini siano gli estremi dello spettro normale del comportamento umano, piuttosto che una malattia psichiatrica distinta. Sapendo che i comportamenti sani, come la creatività, condividono la loro biologia con alcune malattie psichiatriche, otteniamo una migliore comprensione dei processi di pensiero che portano una persona ad ammalarsi e come il cervello potrebbe andare incontro a processi di sviluppo anomali.

Questi risultati suggeriscono che le persone creative possono avere una predisposizione genetica che le spinge a pensare in modo diverso. Combinando questo ad altri fattori biologici e ambientali nocivi, potrebbe generarsi una malattia mentale.

Il terreno su cui si stanno muovendo i ricercatori è molto insidioso e offre molti spunti per riflettere su cosa sia normale e patologico e dove possa essere posto il confine tra normalità e patologia in psichiatria.

autismo Alla luce dei più recenti studi sull’argomento, anche gli ultimi dubbi sull’ipotesi di un legame tra vaccino trivalente, contro morbillo, rosolia e parotite, e disturbi dello spettro autistico sono scomparsi. La ricerca, pubblicata dalla rivista Jama, conferma che il legame non esiste. I dati confutano anche le teorie secondo cui l’immunizzazione potrebbe essere la scintilla che fa scattare la malattia.

95.000 bambini sono studiati per almeno cinque anni tra il 2002 e il 2012, il 2% dei quali con un fratello gia’ colpito da sindrome dello spettro autistico.  Se fosse vero che il vaccino scatena l’autismo, si dovrebbero riscontrare percentuali piu’ alte della malattia in chi e’ gia’ piu’ predisposto. Non è stata trovata invece nessuna evidenza che aver ricevuto una o due dosi di vaccino trivalente sia associato con un aumento di rischio di autismo, neanche tra bambini che hanno un fratello maggiore con la malattia.

Quello coordinato da Anjali Jain del Lewin group di Falls Church, in Virginia, e’ l’ultimo di una lunga serie di studi sul tema. Ormai decine di studi hanno dimostrato che l’eta’ di inizio del diturbo non cambia tra bimbi vaccinati o non vaccinati, cosi’ come la loro gravità e ora sappiamo anche che non varia il rischio neanche in famiglie che hanno gia’ un caso.

La bufala su vaccini e l’autismo nasce da uno studio pubblicato su Lancet nel 1998 dal medico Andrew Wakefield, poi ritirato dalla rivista, ma che e’ ancora citato dai gruppi contro i vaccini e non solo. Lo studio appena pubblicato su Jama, ultimo di una lunga serie, e’ uno dei piu’ ampi, con un vasto numero di bambini coinvolti. Da quando e’ uscita la ricerca, poi rivelatasi falsa, che in teoria dimostrava un legame, i ricercatori di tutto il mondo hanno cercato di riprodurla, ma nessuno ci e’ riuscito. Nonostante questo non solo viene ancora citata da chi e’ contro i vaccini, ma in Italia abbiamo avvocati, consulenti di tribunali e persino sedicenti politici che si fanno un vanto di essere in contatto con l’autore, che nel frattempo e’ anche stato radiato dall’ordine dei medici.

Non dobbiamo basare le nostre scelte e quelle che riguardano i nostri figli, su credenze popolari o sul sentito dire. La scienza medica fa ogni giorno passi avanti e ignorarla è un atto dannoso e irresponsabile.

cannabis Precedenti studi hanno identificato un legame tra uso di cannabis e schizofrenia, ma è rimasto poco chiaro se questa associazione sia dovuta alla cannabis che aumenta direttamente il rischio di sviluppare la malattia.

Questi nuovi risultati suggeriscono che una parte di questa associazione sia dovuta a geni comuni, ma non escludono una relazione causale tra l’uso di cannabis e il rischio di schizofrenia.

Gli studi hanno costantemente dimostrato un legame tra uso di cannabis e schizofrenia. Lo studio ha cercato di esplorare se questo legame esiste a causa di una causa diretta o di un effetto, o se ci possono essere dei geni comuni che predispongono gli individui sia all’abuso di cannabis e alla schizofrenia condiviso.

La cannabis è la droga illecita più utilizzata in tutto il mondo e il suo uso è più elevato tra le persone con schizofrenia rispetto alla popolazione generale. La schizofrenia colpisce circa 1 persona su 100 e le persone che fanno uso di cannabis hanno circa il doppio delle probabilità di sviluppare il disturbo. I sintomi più comuni della schizofrenia sono i deliri (false credenze) e le allucinazioni uditive (sentire delle voci). Anche se la causa esatta non è nota, una combinazione di fattori fisici, genetici, psicologici e ambientali sono in grado di rendere le persone più a rischio di sviluppare la malattia.

Precedenti studi hanno identificato un certo numero di varianti di rischio genetico associati alla schizofrenia, ciascuno di questi singoli rischi produce solo un lieve aumento del rischio individuale di sviluppo della malattia.

Il nuovo studio ha incluso 2082 individui sani di cui 1.011 avevano usato cannabis. E’ stato misurato il “Profilo di rischio genetico” di ogni individuo, cioè il numero di geni correlati alla schizofrenia presenti in ciascun individuo.

I ricercatori hanno scoperto che le persone geneticamente predisposte alla schizofrenia erano più propense a usare la cannabis e usarla in quantità maggiore rispetto a coloro che non possiedono geni di rischio per la schizofrenia.

Sappiamo che la cannabis aumenta il rischio di schizofrenia. Questo studio di certo non esclude l’importanza di questo dato, ma suggerisce che è probabile che vi sia una associazione anche nell’altra direzione, ovvero che una predisposizione alla schizofrenia aumenti anche la probabilità di consumo di cannabis.

Lo studio mette in evidenza le complesse interazioni tra geni e ambiente quando si parla di cannabis come fattore di rischio per la schizofrenia. Alcuni rischi ambientali, come l’uso di cannabis, potrebbero essere più probabili in presenza di una particolare modalità di comportamento e personalità, a loro volta influenzati dal patrimonio genetico. E’ molto complicato dunque calcolare il peso di ogni singolo fattore e la sua natura.

farmaci LSD, marijuana, ecstasy, psilocibina potrebbero segnare nuovi percorsi di terapia per le malattie mentali. La rivista “Scientific American” di Febbraio, lancia un monito all’opinione pubblica, invitandola a non condannare senza appello alcune droghe, perché la ricerca su depressione, autismo o schizofrenia è arrivata ad un punto morto con gli attuali filoni di ricerca.

In Italia  la prevalenza lungo il corso della vita di tutti i disturbi mentali nella popolazione generale è superiore al 18%, il che significa che c’è un bisogno urgente di fornire risposte innovative. Questa necessità, però, si scontra con norme molto restrittive, che dichiarano off-limits tutte le droghe d’abuso, impedendo così di utilizzarle in contesti di ricerca.

Eppure a metà degli anni ’60 l’LSD fu sperimentata per rendere più efficace la psicoterapia, mentre nella decade successiva lo stesso ruolo veniva attribuito alla MDMA (ecstasy). La marijuana è l’unica droga illegale in parte sdoganata, per scopi medici, ma non utilizzabile in ambito di ricerca. Il no inderogabile all’impiego delle droghe nei laboratori di ricerca risale agli anni ’70, quando una legge americana eliminò tutti gli studi sostenendo che queste sostanze ‘al momento non avevano alcun impiego medico riconosciuto’ ed esiliandole nella lista delle sostanze illegali. Con il tempo, tre trattati delle Nazioni Unite hanno esteso il loro esilio praticamente a tutto il resto del mondo.

Bandire queste droghe da laboratori e trial clinici ha impedito di fatto alla ricerca di proseguire il suo corso e anche di conoscere più approfonitamente gli effetti di queste sostanze sull’organismo.

Le domande irrisolte sono molte: l’ecstasy potrebbe aiutare a superare il disturbo da stress post-traumatico intrattabile? LSD e psilocibina potrebbero essere impiegate nel trattamento della cefalea a grappolo? Le droghe psichedeliche potrebbero aiutare a scoprire nuovi recettori in aree critiche per il controllo della depressione e della schizofrenia? La marijuana potrebbe essere utile nei ragazzi con ADHD o nelle apnee da sonno e nella sclerosi multipla?

La richiesta che viene da Scientific American è dunque quella di liberare queste droghe per scopi di ricerca e permettere così di testarle all’interno di trial clinici controllati, riducendo le lungaggini burocratiche e gli infiniti tempi di approvazione dei comitati etici. Serve ridare impulso alla ricerca di trattamenti psichiatrici, stagnante da troppo tempo, e tutte le vie devono essere battute.

ricerca-scientifica Tra il 2007 e il 2011 i trial clinici, le sperimentazioni di nuovi farmaci o procedure diagnostiche, in Europa sono crollate del 25%. Per spiegare questa disfatta della ricerca in Europa sono stati invocati gli alti costi economici, i tempi di approvazione troppo lunghi e la restrittiva Direttiva Europa sui Trial Clinici. Un sondaggio anonimo condotto sul web ha valutato in maniera sistematica tutti i fattori che potrebbero influenzare la crisi dei trial clinici nei centri europei.

Nello studio internazionale sono stati coinvolti 485 responsabili clinici della ricerca biomedica di 34 nazioni: il 49% appartenenti al settore farmaceutico e il 40% di ambito accademico. Tra gli elementi di maggior importanza nell’influenzare la scelta di un centro di avviare un trial clinico sono stati presi in esame gli aspetti relativi ai ricercatori (interesse in una certa area di patologia, prestigio, pubblicazioni, esperienze precedenti in studi simili), organizzativi (velocità di approvazione da parte dei comitati etici e istituzionali, disponibilità di pazienti idonei all’interno di una regione, incentivi governativi, costi, esistenza di network di esperti internazionali su una patologia, ecc.) e relativi ai centri ospedalieri (esperienza del personale coinvolto nel trial e abilità linguistiche, attrezzature diagnostiche disponibili, ecc); mentre la voce ‘costi’ è risultata meno impattante.

All’interno dei criteri organizzativi, definiti “ambientali”, la disponibilità di un adeguato numero di pazienti idonei, la velocità di approvazione dei trial e la presenza di network di professionisti, assumevano un peso nettamente superiore rispetto alle voci economici o agli incentivi finanziari governativi. Le zone geografiche più appetibili, quelle più recettive per la realizzazione di un trial clinico, sono risultati i Paesi del nord Europa (nell’ordine Germania, Olanda, Regno Unito); Italia e Spagna sono, anche in questo campo, il fanalino di conda.

La semplicità dei processi di approvazione è un fattore determinante nella selezione dei centri per i trial clinici, mentre meno impattante appare il lato economico. Ciò significa che per spingere la ricerca nel Vecchio Continente servono investimenti aggiuntivi o incentivi da parte dei governi. Prioritaria per attirare un maggior numero di trial clinici in Europa, appare invece l’organizzazione dei processi di approvazione (le lungaggini amministrative non incentivano la scelta: “il tempo è denaro”), una maggior visibilità dei centri d’eccellenza (ad esempio attraverso la creazione di siti web o di network dedicati ad una particolare patologia) e il contenimento dei costi indiretti, legati alla burocrazia per impostare un trial, la lentezza del reclutamento, la scarsa performance di un centro. Significativo a questo riguardo è il fatto che il 75% degli intervistati reputi l’informazione via web, con la creazione di uno “sportello virtuale centralizzato”, “decisamente auspicabile” o “utile la maggior parte delle volte”.

E’ necessario e prioritario realizzare una vera unità d’Europa anche della ricerca scientifica, un’area di ricerca europea all’interno della quale sia garantita la libera circolazione di ricercatori, conoscenze scientifiche e tecnologiche.

La strategia di crescita dell’Europa per l’anno 2020 prevede un investimento del 3% del Pil in ricerca e sviluppo scientifico. Per raggiungere questo obiettivo è fondamentale consentire gli investimenti in Europa senza doversi imbattere in inutili e continui ostacoli. L’Europa ha le potenzialità per essere protagonista della ricerca medica perché possiede un mercato appetibile, un’ampia fetta di popolazione nella terza età, centri universitari e di ricerca prestigiosi, importanti industrie farmaceutiche. E’ arrivato il momento di rimuovere gli ostacoli legati ai governi nazionali e alle loro agenzie di controllo e, per quanto riguarda l’Italia, di imparare qualcosa dai nostri vicini.

h1n1 Uno studio finanziato dal National Institutes of Health americano ha dimostrato che l’esposizione di madri incinta al virus dell’influenza è stata associata a un rischio aumentato di quasi quattro volte per il loro bambino di ammalarsi di disturbo bipolare in età adulta. I risultati si aggiungono alle crescenti evidenze di possibili cause di fondo condivise e processi di malattia simili alla schizofrenia, tra cui vi è l’esposizione prenatale all’Influenza.

Alla luce di questi risultati, le future mamme dovrebbero adottare misure preventive di buon senso, come evitare il contatto con le persone che mostrano i segni e i sintomi dell’Influenza e rispettare le più comuni norme igieniche. Nonostante le raccomandazioni di salute pubblica, solo una piccola frazione di queste donne si vaccinano contro il virus. Il peso delle prove che abbiamo ora, suggeriscono che i benefici del vaccino probabilmente superano ogni possibile rischio per la madre o per il neonato.

Tra quasi un terzo di tutti i bambini nati in una contea della California settentrionale durante gli anni 1959-1966, i ricercatori hanno seguito 92 persone, che hanno sviluppato il disturbo bipolare, confrontando i tassi di diagnosi di influenza materna durante la gravidanza con 722 controlli appaiati.

Il rischio quasi quadruplicato che abbiamo citato si è dimostrato uguale in qualsiasi momento durante la gravidanza, non si sono trovate prove che suggeriscano che il rischio sia più alto se l’influenza si è verificata durante il secondo o terzo trimestre di gravidanza. Inoltre, i ricercatori hanno collegato l’esposizione all’Influenza con un aumento di quasi sei volte di un sottotipo più raro di disturbo bipolare con manifestazioni psicotiche.

Un precedente studio condotto dagli stessi ricercatori in un campione di pazienti del nord della California, aveva trovato un rischio tre volte maggiore per l’insorgenza di schizofrenia associata con l’influenza materna durante la prima metà della gravidanza. L’autismo è stato analogamente legato a infezioni virali materne nel primo trimestre.

La ricerca futura indagherà se questo stesso fattore di rischio ambientale potrebbe dar luogo a diversi disturbi, a seconda del momento della gravidanza in cui si verifica l’infezione e come questa colpisca il cervello del feto in via di sviluppo.