obesita-dietaÈ stato identificato un meccanismo fondamentale con cui il cervello traduce alcuni segnali periferici di sazietà: l’istamina attiva determinate aree cerebrali (ipotalamo), veicolando il segnale di sazietà prodotto dall’intestino durante il consumo del pasto da parte del lipide oleoiletanolamide. A scoprire come avviene questo processo – in particolare alcune modalità del collegamento tra l’istamina e il lipide – è l’Università di Firenze e l’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) di Roma, in collaborazione con il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia dell’Università di Roma La Sapienza. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences).

Il segnale di sazietà prodotto dall’intestino durante il consumo di un pasto da parte di un lipide, l’oleoiletanolamide (Oea), attiva aree specifiche del cervello che usano l’istamina come neurotrasmettitore, favorendo la cessazione dell’attività alimentare.

L’oleoiletanolamide è un composto lipidico rilasciato dagli enterociti, le cellule dei villi intestinali, in risposta al consumo di grassi. Tale composto segnala indirettamente la sazietà ai nuclei ipotalamici, attivando fibre sensoriali del nervo vago che trasmettono il segnale a livello centrale. L’istamina cerebrale viene rilasciata durante la fase dell’appetito, fornendo alti livelli di sollecitazione prima del pasto e media la sazietà. Essa funziona come un segnalatore di sazietà attivando il recettore dell’istamina H1 in specifici nuclei ipotalamici. L’istamina dunque potrebbe fungere da segnalatore della fame, indicando quando è l’appetito è cessato.

Le prove sperimentali raccolte evidenziano che l’effetto di riduzione dell’appetito dell’oleoiletanolamide viene attenuato sia in animali privi della possibilità di sintetizzare istamina, sia in animali le cui riserve neuronali di istamina sono state temporaneamente inattivate attraverso la somministrazione diretta nel cervello di un agente inibitore. I ricercatori italiani sono riusciti a individuare la natura dei neurotrasmettitori implicati e a comprendere i meccanismi attraverso cui determinati neuroni presenti nel cervello a livello dell’ipotalamo traducono l’informazione sullo stato nutrizionale dell’organismo e sul corrispondente livello di sazietà. È stato identificato quindi nel sistema neurotrasmettitoriale dell’istamina una delle componenti fondamentali per veicolare il messaggio di sazietà generato dall’oleoiletanolamide a livello intestinale.

La conoscenza di questi meccanismi neuronali, che giocano un ruolo essenziale nel comportamento alimentare, in quanto contribuiscono alla riduzione dell’appetito, offriranno nuove prospettive per sviluppare farmaci più efficaci e sicuri per il trattamento dell’obesità, che mirino a incrementare il rilascio di istamina nel cervello.

cervello binarioIl cervello delle donne con bulimia risponde in modo diverso di quello delle donne senza bulimia quando vengono loro mostrate immagini di donne magre. Entrambi i gruppi hanno risposto in modo simile alle immagini raffiguranti cibo, secondo uno studio condotto da ricercatori presso l’Istituto di Psichitria del King’s College di Londra.

Il lavoro suggerisce che i trattamenti per la bulimia dovrebbero avere un forte accento sull’immagine di sé piuttosto che esclusivamente o principalmente sui problemi con il cibo. I processi neurali alla base bulimia che sono collegati con i sintomi chiave delle abbuffate, delle condotte di eliminazione e dell’immagine corporea alterata sono capiti male. Nel tentativo di aumentare la conoscenza di questo tipi di comportamenti, i ricercatori hanno studiato gli schemi cerebrali in un gruppo di 21 donne con bulimia e 23 donne senza tael disturbo. Hanno trovato che le risposte del cervello tra i due gruppi differivano solo quando erano mostrate immagini di donne magre.

Per studiare la differenza negli schemi cerebrali delle donne sono state usate scansioni di risonanza magnetica funzionale. Mentre venivano eseguite queste scansioni alle donne sono state mostrate immagini che includevano cibo appetitoso, donne magre, immagini di controllo neutre e anche una croce ner , che ha fornito un segnale di riferimento. Prima di essere mostrate queste immagini, alle partecipanti dello studio sono state date istruzioni quali “immaginate di mangiare questo cibo” e “confrontate il vostro corpo con i corpi nelle immagini”.

Confrontando queste scansioni cerebrali, i ricercatori hanno scoperto che la parte del cervello interessata con l’auto-riflessione era più attiva nelle donne con bulimia quando venivano mostrate immagini di donne esili, di quanto non fosse nelle donne sane. Al contrario, quando erano mostrate immagini di cibo non vi erano differenze marcate tra i due gruppi di donne. Entrambe le immagini di donne magre e le immagini di cibo determinavano un aumento di ansia nelle donne con bulimia.

La Bulimia nervosa è una condizione molto fraintesa e spesso banalizzata perché i suoi sintomi principali di eccesso di introduzione di cibo, vomito e preoccupazione per il proprio corpo suscitano giudizi moralistici da parte degli altri, compresi i professionisti della salute. I risultati parlano della estrema paura che i malati hanno di non essere accettabili per gli altri e il loro bisogno ossessivo di confrontarsi con gli altri, soprattutto in relazione al loro aspetto.

I risultati supportano l’idea che la psicoterapia per la bulimia nervosa dovrebbe avere una particolare attenzione sull’immagine del corpo e non concentrarsi esclusivamente sul cibo, sul mangiare e questioni connesse. Attualmente il trattamento di scelta per la bulimia è la terapia cognitivo-comportamentale. I ricercatori suggeriscono che i loro risultati potrebbero anche essere utilizzati per sviluppare altri trattamenti clinici o migliorare quelli esistenti, ad esempio sulla base di neuromodulazione, che possano contrastare i pattern di attivazione cerebrale evidenziati in questo studio.

diabeteUn team internazionale di ricercatori ha scoperto perché le persone con una variante del gene FTO, che colpisce un sesto della popolazione, mostrano il 70 per cento in più di probabilità di diventare obesi.

Un nuovo studio condotto da scienziati del King College di Londra, UCL (University College London), e il Medical Research Council (MRC) mostra che le persone con la variante del gene FTO hanno elevati livelli circolanti del cosiddetto “ormone della fame”, la grelina, nel loro sangue. Questo significa che cominciano a sentire di nuovo fame subito dopo aver mangiato un pasto.

Il Brain imaging in tempo reale rivela che la variazione del gene FTO cambia anche il modo in cui il cervello risponde alla grelina, e alle immagini di cibo, nelle regioni connesse con il controllo dell’alimentazione e della ricompensa.

Insieme, questi risultati spiegano per la prima volta perché le persone con la variante di a rischio obesità del gene FTO mangino di più e preferiscano alimenti più calorici rispetto a quelli con la versione a basso rischio, anche prima di diventare sovrappeso.

E’ noto che che variazioni nel gene FTO sono fortemente collegate con l’obesità, ma fino ad ora non sapevamo perché. Ciò che questo studio mostra è che gli individui con due copie della variante FTO a rischio obesità, sono biologicamente programmati per mangiare di più. Non solo queste persone hanno livelli più elevati di grelina e pertanto sentono più fame, il loro cervello risponde in modo diverso alla grelina e alle immagini raffiguranti cibo.

A livello terapeutico questo risultato suggerisce importanti spunti per combattere la lotta contro la pandemia dell’obesità. Ad esempio, sappiamo che la grelina (e quindi la fame) può essere ridotta dall’esercizio fisico come la corsa e il ciclismo, o da una dieta ricca di proteine. Ci sono anche alcuni farmaci in cantiere che sopprimono la grelina, che potrebbe essere particolarmente efficace se destinati ai pazienti con la variante a rischio obesità del gene FTO.

Un quarto di tutti gli adulti nel Regno Unito ora sono obesi (hanno un BMI superiore a 30) e si prevede che questa cifra salirà al 60 per cento degli uomini, il 50 per cento delle donne e il 25 per cento dei bambini entro il 2050.

Studi precedenti hanno rivelato che le variazioni di un singolo nucleotide nel codice genetico del gene FTO sono collegate a un aumentato rischio di obesità, e questo comportamento è presente già nei bambini in età prescolare.

Gli scienziati hanno reclutato 359 volontari maschi sani per esaminare gli effetti nella vita reale della variazione FTO. Hanno studiato due gruppi di partecipanti – quelli con due copie della variante FTO ad alto rischio obesità (gruppo AA) e quelli con il basso rischio di obesità (gruppo TT). Hanno abbinato i volontari per il peso corporeo, la distribuzione del grasso e fattori sociali, come il livello di istruzione al fine di garantire che tutte le differenze che vedevano fossero legate al FTO e non ad altre caratteristiche fisiche o psicologiche.

Un gruppo di 20 partecipanti (10 AA e 10 TT) sono stati invitati a valutarela loro fame, prima e dopo un pasto standard, mentre campioni di sangue sono stati prelevati per verificare i livelli di grelina – un ormone rilasciato dalle cellule dello stomaco che stimola l’appetito. Normalmente i livelli di grelina salgono prima dei pasti e decrescono dopo aver mangiato, ma in questo studio gli uomini con la variazione AA hanno mostrato livelli circolanti di grelina molto più alti e sentito più fame dopo il pasto rispetto al gruppo di TT. Questo suggerisce che la variante di obesità-rischio (AA) del gruppo non sopprime la grelina in modo normale dopo un pasto.

Gli scienziati hanno poi usato la risonanza magnetica funzionale in un altro gruppo di 24 partecipanti per misurare come il cervello risponde alle immagini di cibi ad alto contenuto calorico e a immagini di cibo a basso contenuto calorico e articoli non alimentari, prima e dopo i pasti. Ancora una volta hanno preso campioni di sangue e hanno chiesto ai partecipanti di valutare su una scala quanto fossero attraenti le immagini.

Gli individui con la variante FTO rischio-obesità hanno valutato le immagini di alimenti ipercalorici come più attraenti dopo il pasto rispetto al gruppo normale. Inoltre, i risultati dello studio hanno rivelato che i cervelli dei due gruppi hanno risposto diversamente alle immagini di cibo (prima e dopo i pasti) e per i livelli di grelina circolante. Le differenze sono più marcate nelle regioni cerbrali della ricompensa (noti per rispondere ad alcol e droghe ricreative) e nell’ipotalamo – una parte non cosciente del cervello che controlla l’appetito.

Infine, gli scienziati hanno esaminato e cellule umane e di topo per scoprire che cosa provoca un aumento della produzione di grelina a livello molecolare. Hanno scoperto che una sovra-espressione del gene FTO altera la composizione chimica del mRNA della grelina mRNA (il modello dellla proteina grelina) portando a livelli più elevati di grelina prodotta. Cellule del sangue prelevate dal gruppo a rischio obesità avevano anche livelli più elevati di espressione del gene FTO e più mRNA della grelina  rispetto al gruppo a basso rischio.

uomo-obesoL’obesità interessa sei milioni di adulti e, insieme al problema del sovrappeso, un milione di bambini (pari al 35%). Queste le cifre sul fenomeno emerse dal decimo volume della collana Quaderni del ministero della Salute dal titolo «Appropriatezza clinica, strutturale, tecnologica e operativa per la prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità e del diabete mellito». Una situazione che, secondo il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, intervenuto al convegno di presentazione, «può provocare conseguenze gravi, anche se c’è da dire che non è omogenea su tutto il territorio nazionale». Tanto che si passa da una situazione come quella della Valle D’Aosta, che presenta una percentuale di bambini obesi o in sovrappeso del 23%, alla Campania, che ha tassi fino al 49%. E tra le ragioni di questo fenomeno il ministro rileva una scarsa attenzione alle politiche di prevenzione e programmi di attività fisica nelle scuole ancora inadeguati. Dal rapporto arriva anche una fotografia sulla diffusione del diabete, che interessa tre milioni di persone, oltre a un altro milione che presenta la glicemia alta senza saperlo. Dati che destano preoccupazione, perché nel 2010 il diabete ha determinato il 10-15% della spesa sanitaria nazionale e per di più, secondo alcune proiezioni effettuate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, risultano in aumento. La previsione è di arrivare al 2015 a più di 300 milioni di diabetici. Per quanto riguarda il soprappeso le stime sono per circa 2,3 miliardi di individui, con più di 700 milioni di persone obese.

diabeteNon nascono con il diabete ma si ammalano presto, troppo presto. Negli States cresce il numero di adolescenti con diabete di tipo 2. Dunque non il diabete giovanile o di tipo 1, inteso come malattia autoimmune. Bensì la patologia che dovrebbe presentarsi in età ben più matura, quella che figura, o meglio un tempo figurava, tra gli ‘acciacchi’ della popolazione anziana. Ma i tempi cambiano e anche il diabete cambia pelle, complice l’epidemia di chili di troppo che, partita dagli Usa, dilaga ormai in gran parte del pianeta. E che vede l’Italia tra le più nazioni ‘grasse’ in Europa, almeno guardando ai più piccoli.E così, se negli States i teenager si ammalano di diabete 2, “in Italia si rischia di seguirne il cattivo esempio – spiega Ele Ferrannini, ordinario di Medicina interna all’università di Pisa e past president della Società europea di diabetologia (Easd), a San Diego per il meeting dell’American Diabetes Association – I primi casi ci sono già stati, tuttavia sono rari. Ma tra una decina d’anni corriamo il rischio di ritrovarci in una situazione analoga agli Usa”. Ad aprire la strada al diabete tra i giovanissimi “le cattive abitudini – prosegue Ferrannini – le bevande gassate e zuccherine, i fuoripasto, la dieta mediterranea diventata ormai una chimera”. E se si manda troppo in là l’ago della bilancia quando si è giovani, il rischio di restare ‘oversize’ a vita aumenta. “Il peso che si raggiunge a 18 anni – spiega infatti l’esperto – è predittivo, vale a dire che se si è fuori forma da ragazzi è probabile che i chili di troppo diventino la costante di una vita intera”.

Da Adnkronos Salute

latticini Sempre più italiani ‘cancellano’ i latticini dal menù, convinti di essere vittima di un’intolleranza al lattosio. Ma secondo uno studio presentato alla Digestive Disease Week in corso a Chicago, i loro problemi di stomaco possono essere il frutto di una fragilità a livello psicologico.A puntare il dito contro il legame mente-corpo è il team di Guido Basilisco dell’unità di gastroenterologia dell’Irccs Cà Granda di Milano. Secondo i ricercatori, dunque, spesso i pazienti credono – a torto – che la difficoltà a digerire, il gonfiore, i dolori di cui soffrono siano causati da intolleranza al lattosio.All’origine di tutto ci sarebbe, invece, un disturbo somatoforme: ovvero un disturbo psicologico caratterizzato da sintomi che ‘mimano’ problemi fisici, ma per i quali la causa non è affatto nel corpo. Gli studiosi hanno indagato sui fastidi dell’intolleranza al lattosio per capire se fossero dovuti a malassorbimento o, piuttosto, a un’alterazione del profilo psicologico. L’analisi mostra che un alterato livello di somatizzazione è associato in modo significativo alla percezione dei sintomi dell’intolleranza dopo aver ingerito 15 grammi di lattosio.Insomma, “i risultati suggeriscono che i sintomi dell’intolleranza al lattosio”, che portano molti italiani ad abolire latte e latticini dalla dieta, “potrebbero in realtà rivelare un disturbo somatoforme. E dunque rinunciare ai latticini è un comportamento da evitare, potenzialmente controproducente”. Insomma, eliminando ricotta, cappuccino e parmigiano dal menù – senza essersi sottoposti a test e analisi di controllo – si mette a rischio la salute delle ossa, dice Basilisco. E questo senza motivo. Piuttosto, in certi casi meglio affrontare i disturbi dal punto di vista psicologico, con un approccio cognitivo interpersonale diretto a ristabilire una dieta normale, che possa includere latte e latticini.A questo punto, secondo l’esperto, occorrono ulteriori studi per capire quale può essere l’approccio terapeutico migliore. E perché chi somatizza in questo modo si concentra sul cibo, piuttosto che su altri aspetti, come causa dei propri disturbi. I ricercatori hanno studiato a fondo 102 pazienti che si erano recati presso l’unità di gastoenterologia dell’ospedale milanese per una sospetta intolleranza al lattosio.Tutti sono stati sottoposti al breath test e hanno compilato un questionario sui propri sintomi e sulla propria condizione psicologica. In questo modo i ricercatori hanno collegato la psiche a sensazioni come dolore addominale, gonfiore, scariche e tensione del basso ventre. “E’ importante – commenta Mark DeLegge della Medical University of South Carolina – che i pazienti capiscano che ciò che mangiano influisce sul funzionamento del loro apparato digerente”. Ma anche che il legame fra il corpo e la mente a volte è più forte di quanto non si pensi, e merita di essere ulteriormente indagato.

Da Adnkronos Salute