cannabisL’impiego terapeutico della marijuana continua a essere molto dibattuto in tutto il mondo, il New England journal of medicine ha proposto ad alcuni clinici di ragionare sulla letteratura scientifica che riguarda l’argomentoi. In alcuni Stati americani la coltivazione e il consumo di marijuana a scopo terapeutico sono legali. Il caso che ha dato spunto alla rivista riguarda una paziente – una sessantottenne con tumore del seno e metastasi polmonari e vertebrali a livello toracico e toraco-lombare – che vive in uno Stato in cui la prescrizione non viola la legge. La paziente – in chemioterapia con doxorubicina – riferisce astenia e inappetenza, e significativi dolori toraco-lombari. La terapia antinausea a base di ondansetron e proclorperazina ha avuto effetto molto modesto. Per gestire il dolore, negli ultimi tempi assume 1.000 mg di paracetamolo ogni 8 ore e, a volte di notte aggiunge 5 o 10 mg di ossicodone. E’ lei a chiedere al medico di famiglia di usare la marijuana per alleviare la nausea, il dolore e l’affaticamento, dicendo di disporre di un giardino in cui i familiari potrebbero coltivarla.

Favorevoli quando altre opzioni falliscono

Michael Bostwick, della Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota, esprime la sua opinione favorevole, che si basa su un corpus di letteratura (perlopiù aneddotica) a favore dell’efficacia della marijuana, in particolare nei casi refrattari alle terapie convenzionali. Poiché non sono a disposizione negli Stati Uniti inalatori di vapore e i cannabinoidi orali non garantiscono né una biodisponibilità adeguata né rapidità di azione, l’opzione che rimane è quella di fumarne le foglie essiccate: «Se non ha avuto esperienza a scopo ricreativo, la paziente potrebbe trovare inaccettabili gli effetti psicoattivi (che limitano anche l’uso di oppiacei). Ma se ne ottenesse un beneficio, tuttavia, canalizzerebbe 5000 anni di storia della medicina, compreso il secolo in cui i derivati della cannabis avevano un posto fisso nella valigetta nera dei medici americani» spiega Bostwick. «In conclusione, credo che il medico che prescrive la marijuana dovrebbe farlo solo quando le opzioni convenzionali hanno fallito, in pazienti pienamente informati con cui è in corso una relazione terapeutica». Meno possibilisti si dichiarano invece Gary Reisfield, dell’Università di Gainesville in Florida e Robert DuPont, dell’Institute for behavior and health di Rockville, nel Maryland: «Anche se la marijuana probabilmente comporta pochi rischi nella gestione del dolore, è improbabile che offra molti benefici» spiegano, insistendo sull’assenza di dimostrazioni di efficacia nel dolore nocicettivo o in altri sintomi. «Permettere a una paziente con sintomi non controllati di cancro del seno metastatico di uscire dall’ambulatorio con una raccomandazione di fumare marijuana equivale a soccombere al nichilismo terapeutico» affermano.

Il sondaggio online. Il lettori sono favorevoli

La Rivista Americana, ha allora deciso di proporre un sondaggio online agli abbonati (che sono tutti Medici), raccogliendo nella prima settimana circa 1.000 risposte, per il 73% a favore dell’uso medicinale della marijuana.

Normativa italiana

In Italia, con un decreto approvato il 18 aprile del 2007, due dei principi attivi presenti nella cannabis, il Delta-9-tetraidrocannabinolo ed il Trans-delta- 9-tetraidrocannabinolo (Dronabinol) sono stati iscritti nella tabella II, sezione B, delle sostanze stupefacenti e psicotrope e relative composizioni medicinali, considerato che «costituiscono principi attivi di medicinali utilizzati come adiuvanti nella terapia del dolore, anche al fine di contenere i dosaggi dei farmaci oppiacei, ed inoltre si sono rivelati efficaci nel trattamento di patologie neurodegenerative quali la sclerosi multipla». Tuttavia rimane quasi impossibile sul piano pratico importare il farmaco, e la coltivazione è punita con pene che vanno dai 2 ai 20 anni.

cannabis Una nuova ricerca ha rilevato che il consumo persistente di cannabis durante l’adolescenza può causare danni durevoli all’intelligenza, all’attenzione e alla memoria. I ricercatori del Medical Research Council (MRC), l’Istituto di Psichiatria (IOP) del King’s College di Londra hanno collaborato con gli scienziati della Duke University negli Stati Uniti e l’Università di Otago in Nuova Zelanda trovando che gli individui che hanno iniziato ad usare cannabis in adolescenza, più di una volta alla settimana per diversi anni hanno mostrato un calo medio del Quoziente Intellettivo di 8 punti, comparando i loro test d’intelligenza effettuati a 13 anni di età e quelli effettuati a 38 anni.

Il team ha studiato l’associazione tra uso persistente di cannabis e il funzionamento neuropsicologico in un gruppo di 1.037 persone, seguiti dalla nascita, nel 1972/1973, ai 38 anni. Il consumo di cannabis è stato accertato in interviste compiute alle età di 18, 21, 26, 32 e 38 anni. I test neuropsicologici per valutare memoria, velocità di elaborazione, ragionamento ed elaborazione visiva sono stati condotti all’età di 13 anni, prima dell’uso di cannabis, e di nuovo a 38 anni.

Circa il 15 per cento del gruppo di studio sono stati considerati consumatori di cannabis persistenti e il 5 per cento hanno fatto uso di cannabis più di una volta la settimana prima dei 18 anni. Gli individui che hanno iniziato a usare cannabis persistentemente durante l’adolescenza hanno mostrato un declino maggiore della funzionalità neuropsicologiche rispetto a coloro che hanno iniziato a fumare in età adulta. L’uso continuo di cannabis è stato associato all’ampia compromissione delle aree di funzionamento neuropsicologico, ed è rimasta significativa anche dopo aver tenuto conto degli anni di istruzione e l’uso di altre droghe, tra cui l’alcol. Smettere o ridurre il consumo di cannabis non ha pienamente aiutato a ripristinare il funzionamento neuropsicologico tra gli individui che hanno iniziato durante l’adolescenza.

Lo studio dimostra che gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili agli effetti della cannabis. Il cervello subisce importanti cambiamenti maturativi durante l’adolescenza. Ad esempio, si ritiene che alcuni cambiamenti dello sviluppo cerebrale che si verificano durante l’adolescenza rendano più efficiente il cervello. Gli adolescenti che fanno uso di cannabis possono subire delle interferenze in questi critici processi di maturazione.

Questa ricerca non deve impantanarsi nei dibattiti sulla legalizzazione della marijuana. Il messaggio semplice è che l’uso di sostanze non è sano per i bambini. Questo è vero per il tabacco, l’alcool, e a quanto pare ora è provato anche per la cannabis.


Per leggere tutto l’articolo: Meier, M.H. et al. ‘Persistent cannabis users show neuropsychological decline from childhood to midlife’, Proceedings of the National Academy of Sciences  (August 2012) doi: 10.1073/pnas.1206820109

farmaci I tabagisti che assumono prodotti multivitaminici fumano più sigarette rispetto agli amanti delle bionde che non li utilizzano. E’ un esempio di ciò che gli psicologi chiamano ‘effetto licenza’, che si verifica quando le persone fanno una scelta sana, che le fa sentire in potere di farne una meno salutare in seguito. Esattamente quello che succede quando ci si dà all’alcol nel fine settimana dopo essere rimasti sobri tutta la settimana. In questo caso, i fumatori che assumono integratori multivitaminici fumano di più, perché sono convinti che questi prodotti possano proteggerli dal cancro, cosa che la scienza non ha ancora provato, evidenziano gli esperti della National Sun Yat-Sen University di Taiwan su ‘Addiction’. Nella rivista vengono descritti due esperimenti condotti dagli autori. Nel primo 74 fumatori abituali hanno ricevuto un placebo, ma alla metà di loro è stato detto che stavano assumendo un integratore di vitamina C. Nelle pause in cui veniva consentito di fumare, quelli che pensavano di aver preso una pillola di vitamina accendevano quasi il doppio delle sigarette rispetto al gruppo di controllo, e riportavano una maggiore sensazione di invulnerabilità nei confronti dei danni del fumo. Il secondo esperimento è una versione più ampia del primo, con 80 partecipanti: ancora una volta, i fumatori che credevano di aver preso un multivitaminico fumavano più del gruppo di controllo.

Da Adnkronos Salute

L’approccio terapeutico ai pazienti dipendenti da sostanze oppiacee è spesso complesso a causa della scarsa richiesta di cure da parte di questi soggetti, una scarsa aderenza al trattamento e frequenti ricadute. L’antagonista degli oppioidi naltrexone si rivela una nuova possibilità, distinta dalla terapia di mantenimento con agonisti degli oppioidi: in aggiunta al trattamento psicosociale, potrebbe migliorare l’accettabilità della farmacoterapia contro la dipendenza e rappresentare un’utile opzione per molti pazienti. Questa tesi è il risultato di uno studio randomizzato in doppio cieco contro placebo condotto in Russia da un gruppo di lavoro coordinato da Evgeny Krupitsky, dell’università statale medica Pavlov di San Pietroburgo. La ricerca, durata 24 settimane, ha coinvolto 13 centri clinici russi in cui si sono recati 250 pazienti over 18 in fase di disintossicazione. In modo random, i pazienti sono stati sottoposti all’assunzione di 380 mg di naltrexone (n=126) oppure placebo (n=124), in aggiunta a 12 sessioni bisettimanali di counselling. Endpoint primario è stata l’astinenza, comprovata da test delle urine e dichiarazioni del paziente, durante le settimane 5-24; endpoint secondari: i giorni liberi da oppioidi auto-riportati, il punteggio di desiderio di sostanze, il numero di giorni di mantenimento e la ricaduta nella dipendenza psicologica da sostanze. La proporzione mediana di settimane senza assunzione di sostanze è stata del 90,0% nel gruppo naltrexone rispetto a 35% nel gruppo placebo. I soggetti nel gruppo naltrexone hanno dichiarato una mediana di 99,2% di giorni liberi da sostanze rispetto al 60,4% del gruppo placebo. Per quanto riguarda la variazione nel desiderio di sostanze, si è assestato in un punteggio medio di -10,1 nel gruppo naltrexone e di +0,7 nel gruppo placebo. Il numero mediano di giorni di mantenimento è stato di 168 nel gruppo naltrexone rispetto ai 96 in quello placebo. Nel complesso, naltrexone è stato ben tollerato e non ha causato decessi, fenomeni di overdose e sospensione del trattamento per gravi eventi collaterali.

Lancet, 2011; 377(9776):1506-13

fumatoreLa passione per le ‘bionde’ mina la salute in molti modi. Secondo un recente studio, pubblicato su ‘Archives of Neurology’, fumare è associato ad un aumento del rischio di Sla (sclerosi laterale amiotrofica). “Circa il 90% dei casi della malattia” – nota anche come ‘malattia dei calciatori’, perché ha colpito negli anni numerosi giocatori – “è sporadico e di origine sconosciuta”, ricordano i ricercatori del team di Hao Wang dell’Harvard School of Public Health di Boston (Usa).Per mettere in luce i possibili legami tra sigarette e Sla i ricercatori hanno analizzato i dati di 5 studi a lungo termine, che coinvolgevano oltre 1,1 milioni di persone, di cui 832 con la sclerosi laterale amiotrofica, e un follow up da 7 a 28 anni. I tassi di Sla nei 5 studi aumentavano con l’età, ed erano più alti negli uomini. Inoltre, le persone che avevano fumano all’inizio dello studio sono risultate a maggior rischio di sviluppare la malattia rispetto a quanti non avevano mai acceso una sigaretta. In particolare, spiegano gli studiosi, per i fumatori il rischio di Sla è risultato più alto del 42%, mentre per gli ex addirittura del 44%. Il pericolo aumentava poi in relazione al numero di pacchetti e agli anni in cui si è fumato. E perfino un inizio molto precoce con pacchetto e accendino sembra aumentare il pericolo. “Sono diversi i possibili meccanismi attraverso i quali le sigarette possono influenzare il rischio di Sla”, fra questi un danno neuronale diretto da ossido nitrico o altri componenti del fumo, concludono i ricercatori. “Una migliore comprensione della relazione tra fumo e Sla potrebbe evidenziare la scoperta di altri fattori di rischio e aiutare a mettere in luce la natura della malattia”, concludono i ricercatori.

Da Adnokronos salute

stop fumoRicercatori statunitensi dello Scripps Research Institute (Florida) hanno individuato un meccanismo chiave che innesca la dipendenza da nicotina. Lo studio guidato da Paul Kenny, pubblicato sulla rivista ‘Nature’, ha condotto all’identificazione di un sentiero del nostro cervello che regola la vulnerabilità al tabacco. Una scoperta che potrebbe aprire nuovi spiragli alla messa a punto di innovative terapie ‘anti-bionde’, tant’è che i ricercatori che hanno siglato lo studio sono già a lavoro su un nuovo programma di ricerca per battere questa nuova strada in team con i colleghi dell’Università della Pennsylvania.Nel mirino degli scienziati è finito un recettore che regola le risposte cerebrali alla nicotina. Inibendo la proteina in questione in topi ingegnerizzati in laboratorio, gli studiosi hanno potuto constatare che gli animali erano portati a consumare molta più nicotina del normale. Questo effetto, ipotizzano dunque i ricercatori, potrebbe essere invertito stimolando l’espressione del recettore al centro dello studio e spegnere così la voglia di ‘bionde’. “Crediamo che questi dati traccino un nuovo quadro per la comprensione della spinte motivazionali al consumo di nicotina – sottolinea Kenny – indicando le vie del cervello che regolano la vulnerabilità alla dipendenza da tabacco”.In particolare, sotto la lente di ingrandimento degli studiosi è finita la subunità del recettore nicotinico alfa 5, e la sua particolare attività in un’area cerebrale definita tratto abenulo-interpeduncolare. La nicotina, hanno così svelato i ricercatori, attiva in quest’area del nostro cervello il recettore nicotinico in questione, innescando una reazione che può potenzialmente smorzare la voglia di tabacco. Il fumo, ricordano le statistiche citate su ‘Nature’, è una delle principali cause di morte in tutto il pianeta, con oltre 5 milioni di persone che ogni anno perdono la vita. Nelle morti per cancro al polmone, il fumo è considerata la causa principale in oltre il 90% dei casi.

Da Adnkronos salute